giovedì 23 settembre 2010

Stranito in terra straniera



C’è poco da fare, puoi pur essere laureato in fisica nucleare applicata alla glottologia medioevale, quello che importa è che lo sappia comunicare a chi ti sta davanti.
Vivo con due persone davvero simpatiche. Pur percependo una percentuale ridicola delle loro parole (per altro spesso calibrate sul mio scarso vocabolario e sul lentissimo traduttore simultaneo della mia testa) riescono a farmi divertire, a spiegarmi (con mia somma riconoscenza) che se metti un uovo in acqua e sta sul fondo è un uovo fresco, se risale in superficie vuol dire che è andato, si può buttar via. Sono belle persone.
Però, come fare ad essere me, davvero me con loro? Ok, esistono tutti quei linguaggi extraverbali come i gesti, le espressioni del viso, il gioco dei mimi che in qualche modo aiutano. Ma se stai seduto al tavolo di un pub, la musica alta da una cassa dietro la testa, un piatto di incommensurabili dimensione sotto il muso che devi mangiar presto perché sennò si fredda e poi fa schifo: che si fa?
Niente. Si fa tutto quel che si può, con risultati piuttosto deludenti.
Poi (e a questo punto bene immaginate quale sia il livello di utopia) si prova addirittura ad andare in giro per negozi e locali a volantinare il proprio CV. La frase di presentazione ce la si è preparata prima di entrare e non ci sono problemi; quella con cui rispondere ai sorrisi o, peggio, agli sguardi indifferenti di chi chiosa a parole (maledette parole!) quel che avrebbe fatto a meno di dirti è quasi completamente indecifrabile, motivo per cui si finisce a fare un’espressione di risposta che neanche fossi l’ultimo datore di lavoro al mondo con davanti l’ultimo lavoratore potrebbe farmi una (non dico buona) ma almeno sufficiente impressione.

Chiudo il post con una immagine poco chiara, in qualche modo sibillina.
Da Primark, una catena tipo Rinascente con prezzi da mercato, Roberta si dirige verso i camerini per provare una tuta. Poco prima di entrare ci trova due ragazzi che le chiedono quanti indumenti sta portando dentro. Li squadro: uno è alto e curvo, biondastro ma stempiato, quattro peli sulla faccia, due o tre menti di troppo, occhio languido e sorriso bovino; l’altro è grasso, brufoloso, porta occhiali spessi e quadrati con la divisa che pende storta da tutte le parti e un fare impacciato, quasi barcollante.
Quando io vado a provare la mia tuta, davanti al camerino degli uomini, trovo una ragazza bassina ma ben fatta, capelli lisci e lunghi sulle spalle, occhi sottolineati dall’eyeliner, unghie curate e pantaloni neri attillati. Perché, mi chiedo, fare una scelta del genere? La risposta commerciale e maschilista o, meglio, da visione standardizzata della specie umana mi balena subito in mente. Ma arrivo finalmente a chiedermi quale sarà, alla luce di questo, il mio posto qui da Primark o in uno di quei tanti altri locali a cui ho lasciato il mio curriculum e la mia faccia intontita.
Alto, dinoccolato, riccio, barbuto, occhialuto, tonto con contorno di errori grammaticali e accento pessimo, forse anche comico: mi prenderanno a fare almeno il clown? 

Mauro

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