domenica 28 novembre 2010

C come



Charity shop

In terra inglese vige un’invidiabile usanza: i Charity Shops. Sono negozi di cose di seconda mano, e per cose si intende ogni sorta di oggetto pronto a cambiare casa e vivere una nuova vita: dai soprammobili, ai vestiti, ai libri.
Se ne occupano organizzazioni di varia natura, dall’ospedale dietro l’angolo a Save the Children o Amnesty International. Nella pratica, vai lì e compri a basso prezzo quello che altri hanno donato: meno di dieci sterline per un maglione intatto e 50 centesimi (!) per un libro.
Lunga vita ai Charity Shop.


Children

In terra inglese ci si accorge presto di un fatto singolare in questo moderno occidente post-industriale, post-bellico, post-moderno in cui viviamo: abbondano i bambini.
Quasi sempre almeno in due: il primo nel passeggino biposto e il secondo abbarbicato tra le braccia del giovane - almeno secondo gli italici standard - genitore di turno. Senza contare il gran numero di nascituri già evidenti dietro i vestiti tesi delle loro future mamme.
I nostri (non) approfonditi appunti sociologici ci hanno rivelato almeno tre possibili cause dello strano fenomeno: un sistema scolastico che dopo l’high school permette di accedere direttamente al famigerato “mondo del lavoro”, con un titolo sufficiente anche senza continuare gli studi. Un sistema di benefit statali che noi italiani non riusciamo neanche bene a concepire, e non ultima la tendenza di molte disinibite ragazzine inglese ad ubriacarsi, e poi a far nascere il frutto imprevisto di una sbornia di troppo. A quanto pare c’è una convenienza economica, nell’avere un figlio.



In terra inglese abbiamo riscoperto una parola fino ad ora scovata solo tra le pagine delle riviste o tra i mille link di internet: il couchsurfing.
Trattasi dell’ammirevole pratica di mettere a disposizione il proprio “divano” per una o più notti, a uno o più viaggiatori, e magari dischiudere loro le meraviglie nascoste della propria città. Ottimo metodo per pernottare gratis, conoscere persone, scoprire luoghi insoliti, parlare inglese.
Praticabile ovunque, agli antipodi come a 100 chilometri da casa. O magari proprio a casa, ospitando o trasformandosi in guide turistiche del dietro l’angolo.
Lode al couchsurfing e a chi l’ha inventato.


Coins

Continua il reperimento giornaliero di monete disperse per strada.
In ogni caso, mentre aspettavo il bus con i soldi al sicuro nella mano guantata, mi chiedevo quanto deve essere strano usare del denaro con su impressa la propria faccia. E poi, quando dio smetterà di salvare la regina cosa faranno gli inglesi con tutti questi soldi? Li ritireranno a poco a poco per far spazio al nuovo re?
Una cosa è certa: aspettare al freddo non fa bene alla profondità dei miei pensieri.


Christmas Market

A un mese del ritorno a casa l’invio matto e disperatissimo di candidature per qualsivoglia lavoro-recupera-spese, attività che ha riempito le nostre prime settimane qui, ha dato i suoi frutti.
Il frutto si chiama Christmas Market, o German Market, ed è appunto un mercatino tedesco in terra inglese.
A quanto pare, ogni novembre e per un mese intero un gran numero di crucchi invade le maggiori città britanniche vendendo prodotti (che dovrebbero essere) tipici.
Io mi occupo di uno stand di saponette dagli strani colori, odori e fogge: la globalizzazione ha voluto che un’italiana vendesse saponi Made in UK in un mercato di specialità tedesche.
Ciò significa passare 7 ore al giorno in bilico su uno sgabello piazzato sotto una lampada calorifera, cercando di capire al volo le domande - per fortuna sempre simili! - di inglesi biascicatori.
Ho 50 centimetri quadrati di autonomia al di fuori dei quali il freddo mi attanaglia, ho 5 strati di vestiti addosso e alternativamente i piedi o le mani gelate, ma ho anche tanto tempo per leggere, scrivere e guardare la gente abbandonandomi ad ammirabili considerazioni socio-antropologiche.
In ogni caso, il portafoglio ringrazia.


Roberta

sabato 20 novembre 2010

domenica 7 novembre 2010

Stakanovizi



Durante la prima lezione di inglese fatta nel quartiere multietnico di Easton abbiamo conosciuto le nostre colleghe, tutte o quasi mediorientali. La prima domanda che gli abbiamo rivolto (così come facciamo con tutti) è: “Cosa fai nella vita?”. Quella che loro hanno rivolto a noi: “Siete sposati? Avete figli?”.
Sin dall’inizio la loro domanda ci è sembrata fuori luogo, una di quelle che a noi non sarebbe passata neanche lontanamente per la testa, l’abbiamo giudicata appartenente a un modo molto diverso di vivere la vita, la società, una domanda antiquata.

Partecipando a piccoli incontri conviviali prettamente inglesi (feste alcoliche, cene pomeridiane della domenica, birre al pub) ci è capitato di spiegare più volte perché abbiamo deciso di passare tre mesi in Inghilterra, di raccontare il primo mese speso invano alla ricerca di un lavoro, di presentarci attraverso le nostre attività professionali italiane e le nostre aspirazioni di carriera.
Ieri, e solo ieri - quindi dopo circa due mesi di vita da queste parti - abbiamo avuto una grande illuminazione: qui tutti hanno un lavoro ma nessuno è mai giudicato per il proprio.
Esempi. Un assistente universitario schiavo può decidere di punto in bianco che non gliene frega nulla di schiattare per la filologia germanica e cominciare a lavorare in una lavanderia o nella cucina di un ristorante cinese senza che nessuno pensi sia un pazzo fulminato perché comunque continua a parlare di filologia germanica. Un graphic designer affermato può da un giorno all’altro capire di essere affascinato dai massaggi shatzu e così intraprendere una nuova attività senza che gli amici lo additino come uno scriteriato o smettano di frequentarlo perché ha scelto di lavorare le stesse ore con uno stipendio inferiore. Un commercialista o un discografico a quarantacinque anni può essere solleticato dall’idea che in Cile la vita potrebbe soddisfarlo più che nel luogo dove ha sempre e solo fatto il commercialista o il discografico e partire senza cori d’incoraggiamento o file di teste che si scuotono a significare “ma dove te ne vai, cazzone!”.

Il mito del lavoro quindi sta tutto nella nostra testa: da noi vali se lavori sì, ma non solo. Vali se lavori soddisfacendo in tempi e stipendi le aspettative tue, ma anche di mamme, padri, nonni e zie, che stanno tutti lì a giudicare quanto sei realizzato nella vita, e lo fanno secondo parametri che sempre più finiscono per diventare anche i tuoi: stipendio fisso, consistente e sempre coerente con il percorso di studi e gli interessi. Nessun colpo di testa, radicamento al territorio direttamente proporzionale all’età e nessuna soluzione alternativa.
Perseguire i propri progetti, ma non far dipendere la propria serenità dalla loro realizzazione costante e in continua ascesa diventa un’impresa titanica. E si diventa schiavi di un’idea bidimensionale di se stessi, che non prevede deroghe e spesso spegne le aspirazioni.

Qui invece nessuno è quello che produce, il proprio lavoro o le proprie ambizioni professionali; qui uno è quello che è, quello che è stato e quello che potrebbe diventare facendo riferimento a una identità che si costruisce sulle propensioni, le passioni, i desideri, i modi di fare e si essere: su una identità soggettiva (cioè del soggetto vivente) e non oggettiva (dell’oggetto che il vivente realizza).
In Italia si è probabilmente legati a una filosofia borghese, da Mastro Don Gesualdo, che qui è già tramontata, così come da noi è tramontata quaranta o cinquanta anni fa l’idea che la realizzazione personale dipendesse dalla realizzazione familiare e, quindi, dal: “Siete spostati? Avete figli?”
Qui, a dire il vero, nessuno c’ha mai chiesto che lavoro facessimo, siamo sempre stati noi a farci avanti e presentarci così. Da oggi in poi, partecipando ai piccoli incontri conviviali prettamente inglesi, non lo chiederemo più neanche noi e andremo oltre. E in Italia?

Mauro e Roberta