giovedì 9 dicembre 2010

Colpa d'Alfredo

Fatto sta che siamo arrivati alla fine dei nostri tre mesi inglesi e forse, se Alfredo l’altro ieri non me lo avesse chiesto a bruciapelo, non avrei scritto nulla a tirare le somme di questo viaggio o, meglio, a introdurre quello che segue.
Nel link qui sotto infatti spero che Alfredo e gli altri a cui interessa possano trovare un po’ me e dei miei pensieri sul viaggio. Buona visione.

  
Miemorie

   
Esiste anche una versione sottotitolata in inglese
   
Mymories (Italian with English subtitles)


Mauro

domenica 28 novembre 2010

C come



Charity shop

In terra inglese vige un’invidiabile usanza: i Charity Shops. Sono negozi di cose di seconda mano, e per cose si intende ogni sorta di oggetto pronto a cambiare casa e vivere una nuova vita: dai soprammobili, ai vestiti, ai libri.
Se ne occupano organizzazioni di varia natura, dall’ospedale dietro l’angolo a Save the Children o Amnesty International. Nella pratica, vai lì e compri a basso prezzo quello che altri hanno donato: meno di dieci sterline per un maglione intatto e 50 centesimi (!) per un libro.
Lunga vita ai Charity Shop.


Children

In terra inglese ci si accorge presto di un fatto singolare in questo moderno occidente post-industriale, post-bellico, post-moderno in cui viviamo: abbondano i bambini.
Quasi sempre almeno in due: il primo nel passeggino biposto e il secondo abbarbicato tra le braccia del giovane - almeno secondo gli italici standard - genitore di turno. Senza contare il gran numero di nascituri già evidenti dietro i vestiti tesi delle loro future mamme.
I nostri (non) approfonditi appunti sociologici ci hanno rivelato almeno tre possibili cause dello strano fenomeno: un sistema scolastico che dopo l’high school permette di accedere direttamente al famigerato “mondo del lavoro”, con un titolo sufficiente anche senza continuare gli studi. Un sistema di benefit statali che noi italiani non riusciamo neanche bene a concepire, e non ultima la tendenza di molte disinibite ragazzine inglese ad ubriacarsi, e poi a far nascere il frutto imprevisto di una sbornia di troppo. A quanto pare c’è una convenienza economica, nell’avere un figlio.



In terra inglese abbiamo riscoperto una parola fino ad ora scovata solo tra le pagine delle riviste o tra i mille link di internet: il couchsurfing.
Trattasi dell’ammirevole pratica di mettere a disposizione il proprio “divano” per una o più notti, a uno o più viaggiatori, e magari dischiudere loro le meraviglie nascoste della propria città. Ottimo metodo per pernottare gratis, conoscere persone, scoprire luoghi insoliti, parlare inglese.
Praticabile ovunque, agli antipodi come a 100 chilometri da casa. O magari proprio a casa, ospitando o trasformandosi in guide turistiche del dietro l’angolo.
Lode al couchsurfing e a chi l’ha inventato.


Coins

Continua il reperimento giornaliero di monete disperse per strada.
In ogni caso, mentre aspettavo il bus con i soldi al sicuro nella mano guantata, mi chiedevo quanto deve essere strano usare del denaro con su impressa la propria faccia. E poi, quando dio smetterà di salvare la regina cosa faranno gli inglesi con tutti questi soldi? Li ritireranno a poco a poco per far spazio al nuovo re?
Una cosa è certa: aspettare al freddo non fa bene alla profondità dei miei pensieri.


Christmas Market

A un mese del ritorno a casa l’invio matto e disperatissimo di candidature per qualsivoglia lavoro-recupera-spese, attività che ha riempito le nostre prime settimane qui, ha dato i suoi frutti.
Il frutto si chiama Christmas Market, o German Market, ed è appunto un mercatino tedesco in terra inglese.
A quanto pare, ogni novembre e per un mese intero un gran numero di crucchi invade le maggiori città britanniche vendendo prodotti (che dovrebbero essere) tipici.
Io mi occupo di uno stand di saponette dagli strani colori, odori e fogge: la globalizzazione ha voluto che un’italiana vendesse saponi Made in UK in un mercato di specialità tedesche.
Ciò significa passare 7 ore al giorno in bilico su uno sgabello piazzato sotto una lampada calorifera, cercando di capire al volo le domande - per fortuna sempre simili! - di inglesi biascicatori.
Ho 50 centimetri quadrati di autonomia al di fuori dei quali il freddo mi attanaglia, ho 5 strati di vestiti addosso e alternativamente i piedi o le mani gelate, ma ho anche tanto tempo per leggere, scrivere e guardare la gente abbandonandomi ad ammirabili considerazioni socio-antropologiche.
In ogni caso, il portafoglio ringrazia.


Roberta

sabato 20 novembre 2010

domenica 7 novembre 2010

Stakanovizi



Durante la prima lezione di inglese fatta nel quartiere multietnico di Easton abbiamo conosciuto le nostre colleghe, tutte o quasi mediorientali. La prima domanda che gli abbiamo rivolto (così come facciamo con tutti) è: “Cosa fai nella vita?”. Quella che loro hanno rivolto a noi: “Siete sposati? Avete figli?”.
Sin dall’inizio la loro domanda ci è sembrata fuori luogo, una di quelle che a noi non sarebbe passata neanche lontanamente per la testa, l’abbiamo giudicata appartenente a un modo molto diverso di vivere la vita, la società, una domanda antiquata.

Partecipando a piccoli incontri conviviali prettamente inglesi (feste alcoliche, cene pomeridiane della domenica, birre al pub) ci è capitato di spiegare più volte perché abbiamo deciso di passare tre mesi in Inghilterra, di raccontare il primo mese speso invano alla ricerca di un lavoro, di presentarci attraverso le nostre attività professionali italiane e le nostre aspirazioni di carriera.
Ieri, e solo ieri - quindi dopo circa due mesi di vita da queste parti - abbiamo avuto una grande illuminazione: qui tutti hanno un lavoro ma nessuno è mai giudicato per il proprio.
Esempi. Un assistente universitario schiavo può decidere di punto in bianco che non gliene frega nulla di schiattare per la filologia germanica e cominciare a lavorare in una lavanderia o nella cucina di un ristorante cinese senza che nessuno pensi sia un pazzo fulminato perché comunque continua a parlare di filologia germanica. Un graphic designer affermato può da un giorno all’altro capire di essere affascinato dai massaggi shatzu e così intraprendere una nuova attività senza che gli amici lo additino come uno scriteriato o smettano di frequentarlo perché ha scelto di lavorare le stesse ore con uno stipendio inferiore. Un commercialista o un discografico a quarantacinque anni può essere solleticato dall’idea che in Cile la vita potrebbe soddisfarlo più che nel luogo dove ha sempre e solo fatto il commercialista o il discografico e partire senza cori d’incoraggiamento o file di teste che si scuotono a significare “ma dove te ne vai, cazzone!”.

Il mito del lavoro quindi sta tutto nella nostra testa: da noi vali se lavori sì, ma non solo. Vali se lavori soddisfacendo in tempi e stipendi le aspettative tue, ma anche di mamme, padri, nonni e zie, che stanno tutti lì a giudicare quanto sei realizzato nella vita, e lo fanno secondo parametri che sempre più finiscono per diventare anche i tuoi: stipendio fisso, consistente e sempre coerente con il percorso di studi e gli interessi. Nessun colpo di testa, radicamento al territorio direttamente proporzionale all’età e nessuna soluzione alternativa.
Perseguire i propri progetti, ma non far dipendere la propria serenità dalla loro realizzazione costante e in continua ascesa diventa un’impresa titanica. E si diventa schiavi di un’idea bidimensionale di se stessi, che non prevede deroghe e spesso spegne le aspirazioni.

Qui invece nessuno è quello che produce, il proprio lavoro o le proprie ambizioni professionali; qui uno è quello che è, quello che è stato e quello che potrebbe diventare facendo riferimento a una identità che si costruisce sulle propensioni, le passioni, i desideri, i modi di fare e si essere: su una identità soggettiva (cioè del soggetto vivente) e non oggettiva (dell’oggetto che il vivente realizza).
In Italia si è probabilmente legati a una filosofia borghese, da Mastro Don Gesualdo, che qui è già tramontata, così come da noi è tramontata quaranta o cinquanta anni fa l’idea che la realizzazione personale dipendesse dalla realizzazione familiare e, quindi, dal: “Siete spostati? Avete figli?”
Qui, a dire il vero, nessuno c’ha mai chiesto che lavoro facessimo, siamo sempre stati noi a farci avanti e presentarci così. Da oggi in poi, partecipando ai piccoli incontri conviviali prettamente inglesi, non lo chiederemo più neanche noi e andremo oltre. E in Italia?

Mauro e Roberta

lunedì 18 ottobre 2010

West Side Stories



Per leggere correttamente questo post è importante immaginare tutti i dialoghi in inglese, nonché sapere che tutto ciò che segue è un racconto pedissequo di episodi realmente accaduti in questo mese nel nostro South-west.

Al pub

1) Jess parla con Mauro ed altri ragazzi seduti al tavolo. Lui la segue con lo sguardo sperso e annuisce di tanto in tanto, giusto per non sembrare completamente idiota. Il discorso a un tratto si blocca e Jess gli chiede se sta riuscendo a seguirli. Mauro annuisce e si attacca all’ultima parola che crede d’aver inteso:
- Certo, parliamo di Hemingway!
- No, stavamo dicendo che in certi pub puoi comprare marijuana!

2) Finisce un film di Ken Loach proiettato tra le birre spillate a pinta a pinta. Mauro e Roberta si avvicinano ai ragazzi che hanno organizzato la proiezione in prima fila. Loro si scusano perché in effetti l’accento degli attori era davvero difficile da comprendere
- E allora, cosa siete riusciti a cogliere?
- Che era un film di Ken Loach!

A tavola

1) Roberta prova a spiegare a Jess di un ristorante a pochi passi da casa.
- Dai, quel ristorante… quel ristorante… (rivolta a Mauro)… Come si dice angolo?
Jess intuisce:
- Corner!
- Si, si: esatto! - ridiamo assieme.
- Ma scusa, in inglese non esiste anche “angle”? - prova a far sfoggio della sua cultura Mauro.
- Certo, ma si usa più in ambito matematico - puntualizza Jess.
Mauro la guarda accigliato e chiede:
- Ma scusa, e allora quella canzone “Don’t look back in angle”?
Dopo quattordici anni dall’uscita dell'album, Mauro capisce che gli Oasis cantano “Don't look back in anger!” e che la canzone tratta temi molto meno metafisici di quanto ha sempre pensato.

2) Mauro entra in cucina per fare colazione. Jess e Neil sono infervorati in una discussione che, ovviamente, lui non può comprendere. Neil gentilmente prova a spiegargli:
- Abbiamo un piccolo problema con l’assicurazione.
Mauro asserisce senza capire.
- As-si-cu-ra-zio-ne - scandisce meglio Neil provando a pensare a parole meno complicate.
Mauro guarda verso il portatile aperto sul tavolo e ha un’intuizione che, fortunatamente, non ha il coraggio di esprimere ad altra voce: stanno certamente parlando di Torrent, il sistema per condividere e scambiare file su internet!
Neil continua mimando (per non sbagliare) il tutto:
- Hai presente quando uno ha un incidente con la macchina…
- Insurance! Assicurazione… ok! - finalmente Mauro c’arriva.
Purtroppo non è ancora arrivato a comprendere il rapporto fonetico tra Torrent e Insurance!

Al supermarket

Mauro si rivolge ad una commessa:
- Salve, stiamo cercando una lampadina.
- Si, allora: andate oltre lo scaffale dell’audio-video, superate la mensola coi bollitori e al secondo reparto a destra le trovate assieme ai ricambi auto.
Mauro sorride, ringrazia facendo finta d’aver compreso e segue l’unico vero indizio a sua disposizione: il dito della commessa che indica le lampadine.

Mauro

martedì 5 ottobre 2010

My mum, my mum, what have we done

London
London
London
London

Bristol

Bristol

Bristol

Bristol

Bristol

Bristol - Easton

Bristol - Easton

Bristol - Easton

Bath

Bath

Bath

Bath

Bath

Bath

Bath

Bath







Roberta


domenica 3 ottobre 2010

Elenco appuntato



Bath
Bath è a venti minuti di treno da Bristol. Siamo andati in un qualsiasi giorno della settimana e c’era il sole, quasi caldo. Nel parco, una classe di una ventina di liceali lavorava con tre diverse videocamere ad altrettanti piccoli corti chissà per quale lezione. Le strade lastricate di pietroni neri squadrati ci hanno accolto con mille vetrine colorate piene di annunci di lavoro e altre leccornie, come piccoli calzoni ripieni di meraviglie più o meno tradizionali. A Bath ci sono le terme romane, ma le hanno coperte con un intreccio di acciaio e vetro, così chi continua a usufruirne finisce per camminare in accappatoio su una terrazza che si affaccia sulla strada e, per quanto faccia caldo, a noi è sembrato sin troppo intraprendente come vestiario.

Pence 
Da quando siamo arrivati qui a Bristol non abbiamo mai smesso di trovare per strada monete da 1 pence. Non passa giorno senza che si abbassino gli occhi e poi le mani per raccoglierne uno sul marciapiede o all’angolo prima di entrare alla Tesco. Perché gli inglesi tengano così poco agli spiccioli mi risulta difficile da comprendere.
Ieri si è fulminata la lampadina del comodino e al ferramenta ho dato 89 pence tutti a pezzi di 1, 2 e 10: mi ha sorriso divertito mentre io, subdolo, pensavo che certamente parte di quella lampadina la stava pagando lui stesso con la sua distrazione o la sua scarsa considerazione delle monetine.

Integrazione
Easton è il quartiere a nord-est di Bristol in cui viviamo. È una periferia con poche automobili e tanti immigrati non europei. Ogni strada ha il suo market nazionale: India, Bangladesh, Marocco, Pakistan, Libano e altri stati asiatico-african-arabici meno identificabili. Nel complesso c’è un’aria di finta integrazione, per cui la necessità fa intrecciare le culture ma le culture creano muri e imbarazzi: non è affatto detto (giusto per fare un esempio) che, da italiani, si possa usufruire della macchina fotocopiatrice di un negozio pakistano.
L’altro ieri torniamo a casa e Jess, la nostra coinquilina, ci spiega che possiamo riempire un piccolo modulo così da poter votare alle prossime elezioni comunali. Da italiano, resto di stucco. Nel complesso c’è un’aria di integrazione reale che da noi ci sogniamo. Al pub dietro casa hanno pure la Peroni.

Domenica
Il sabato del villaggio l’abbiamo vissuto ieri. Tutto il quartiere era in ghingheri non si sa bene per quale groviglio di motivazioni: bancarelle, festoni, concertini, tavoli e barbecue sulla strada. Oggi piove e tira vento, tutto sembra dormire, la gente si sveglia tardi e fa un solo pasto abbondante a metà pomeriggio, noi guardiamo dalla finestra e aspettiamo con ansia l’arrivo dei tartari: probabilmente faremmo meglio a mettere su un DVD, o a bere una Peroni.

Mauro (con foto di Roberta)

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giovedì 23 settembre 2010

Stranito in terra straniera



C’è poco da fare, puoi pur essere laureato in fisica nucleare applicata alla glottologia medioevale, quello che importa è che lo sappia comunicare a chi ti sta davanti.
Vivo con due persone davvero simpatiche. Pur percependo una percentuale ridicola delle loro parole (per altro spesso calibrate sul mio scarso vocabolario e sul lentissimo traduttore simultaneo della mia testa) riescono a farmi divertire, a spiegarmi (con mia somma riconoscenza) che se metti un uovo in acqua e sta sul fondo è un uovo fresco, se risale in superficie vuol dire che è andato, si può buttar via. Sono belle persone.
Però, come fare ad essere me, davvero me con loro? Ok, esistono tutti quei linguaggi extraverbali come i gesti, le espressioni del viso, il gioco dei mimi che in qualche modo aiutano. Ma se stai seduto al tavolo di un pub, la musica alta da una cassa dietro la testa, un piatto di incommensurabili dimensione sotto il muso che devi mangiar presto perché sennò si fredda e poi fa schifo: che si fa?
Niente. Si fa tutto quel che si può, con risultati piuttosto deludenti.
Poi (e a questo punto bene immaginate quale sia il livello di utopia) si prova addirittura ad andare in giro per negozi e locali a volantinare il proprio CV. La frase di presentazione ce la si è preparata prima di entrare e non ci sono problemi; quella con cui rispondere ai sorrisi o, peggio, agli sguardi indifferenti di chi chiosa a parole (maledette parole!) quel che avrebbe fatto a meno di dirti è quasi completamente indecifrabile, motivo per cui si finisce a fare un’espressione di risposta che neanche fossi l’ultimo datore di lavoro al mondo con davanti l’ultimo lavoratore potrebbe farmi una (non dico buona) ma almeno sufficiente impressione.

Chiudo il post con una immagine poco chiara, in qualche modo sibillina.
Da Primark, una catena tipo Rinascente con prezzi da mercato, Roberta si dirige verso i camerini per provare una tuta. Poco prima di entrare ci trova due ragazzi che le chiedono quanti indumenti sta portando dentro. Li squadro: uno è alto e curvo, biondastro ma stempiato, quattro peli sulla faccia, due o tre menti di troppo, occhio languido e sorriso bovino; l’altro è grasso, brufoloso, porta occhiali spessi e quadrati con la divisa che pende storta da tutte le parti e un fare impacciato, quasi barcollante.
Quando io vado a provare la mia tuta, davanti al camerino degli uomini, trovo una ragazza bassina ma ben fatta, capelli lisci e lunghi sulle spalle, occhi sottolineati dall’eyeliner, unghie curate e pantaloni neri attillati. Perché, mi chiedo, fare una scelta del genere? La risposta commerciale e maschilista o, meglio, da visione standardizzata della specie umana mi balena subito in mente. Ma arrivo finalmente a chiedermi quale sarà, alla luce di questo, il mio posto qui da Primark o in uno di quei tanti altri locali a cui ho lasciato il mio curriculum e la mia faccia intontita.
Alto, dinoccolato, riccio, barbuto, occhialuto, tonto con contorno di errori grammaticali e accento pessimo, forse anche comico: mi prenderanno a fare almeno il clown? 

Mauro

giovedì 16 settembre 2010

La relatività e le blatte




Chi è che diceva che l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo finiscono in qualche modo per coincidere? Forse un grande filosofo lasciato sui banchi del liceo, forse un amico fisico davanti una pepata di cozze? Fatto sta che Londra, questa diceria, la conferma tutta.
Il primo giorno ci risveglia nel ridente quartiere di Hammersmith e si decide di far colazione in un piccolo bar con un bancone pieno di torte e dolcetti fatti in casa. Ci rivolgiamo cordialmente al ragazzo pronto a servirci e lui, subito, ci chiede: “Italiani?”. Confermiamo e passiamo alla nostra lingua comune, così comune che scopriamo dopo breve che sia lui sia l’altro amico, fino ad adesso seduto a un tavolo dietro di noi (apparentemente un cliente, ma invece un dipendente come l’altro), sono di Paternò, cittadina in provincia di Catania rinomata per lo strambo accento (e, in effetti, lo avevamo percepito) e per il fatto che si usi mangiare le rane (e, in effetti, non lo si poteva percepire).
Che altro. Abbiamo visto il negozio di giocattoli più grande che avessimo mai visto, la libreria più grande che avessimo mai visto, i grandi magazzini ancora più grandi di tutti quelli mai visti prima, la fumetteria e il quartiere cinese, gli scoiattoli, i negozi di abbigliamento, i musei, la ruota panoramica e, tutto, tutto, tutto più grande di tutto ciò che prima di adesso avessimo considerato come grande. Bello, bellissimo, ma con 'sto bendiddio sotto gli occhi ci è parso chiaro che sarebbe stato impossibile scegliere qualcosa da comprare. Così, stasera, siamo finiti per andare al supermarket sotto l’ostello e lì abbiamo fatto la prima spesa: un spray insetticida. Abbiamo la stanza infestata da piccoli insetti schifosi e dobbiamo in qualche modo debellarli.
Chi è che diceva che l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo finiscono in qualche modo per coincidere? Forse l’avrebbe detto il commesso del supermercato di sotto se solo gli avessimo raccontato la storia delle blatte, forse lo direbbero gli stessi insetti schifosi se sapessero che da Harrod’s ci abitano i loro cugini.

Mauro

sabato 11 settembre 2010

Romanza la filologia!


C'è un piccolo Calvino in ognuno di noi. E non Italo, ma francese.
Volendo - in puro stile barbaro - semplificare in poche battute quello che altri scrissero in tante e tante pagine (Max Weber), la faccenda si riassume così: il profitto, il successo, la ricchezza sono frutto della grazia divina. In altre parole: se produci, vali, e la tua soddisfazione, la tua realizzazione (anche mistica!) sta proprio nel prodotto del tuo lavoro.
Se sostituiamo all'ipotetico dio la società in cui viviamo, ci ritroviamo in una situazione per cui finiamo per considerarci orgogliosi in maniera direttamente proporzionale a quanto produciamo.
In tempi di precariato, non è una bella cosa. In tempi di velleità pseudo-proto-artistico/espressive, neanche.
Ed ecco giungere la fatidica domanda, che come introduzione ha avuto bisogno di cotante citazioni sociologiche.

"Cosa fai nella vita?": domanda dalla risposta tanto più problematica quanto più anziana è la persona che la fa.
Si potrebbe parlarne per ore analizzando il cosa si vorrebbe fare, cosa si sa realmente fare, cosa si può concretamente fare, cosa è solo lontanamente ipotizzabile fare.
Per poi, dopo aver deliziato l'interlocutore con un tale flusso di coscienza, giungere finalmente al "cosa si fa". Magari declinato nella versione più comprensibile a chi pone la domanda (che, se storicamente avvezzo al posto fisso, ti considererà comunque un mezzo fallito se il posto fisso non ce l'hai nè realisticamente pensi di poterlo mai avere...).

Perchè impelagarsi in una simile odissea oratoria? Per farci stimare dagli altri e, di rimando, perché dagli altri possa tornare un riflesso a farci da autostima. Pensiero contorto, degno di un cane che si morde la coda.
"Perchè vai in Inghilterra?"...se la risposta non è "seguire un corso di glottologia comparata a Oxford", ma "migliorare un po' l'Inglese mentre friggo pesce", il piccolo Calvino weberiano un po' si ribella e cerca di inventarsi locuzioni più intellettualmente glamour.
E perchè no, esiste anche il convincimento artistico-bohemien, votato alla produzione di opere di genere reportagistico (il cui valore - a parità di prodotto  - sarebbe "calvinisticamente" maggiore se Wim Wenders o la Magnum scoprissero questi preziosi diamanti grezzi rendendoli capolavori del contemporaneo).



E mentre discettiamo di queste amenità l'autunno ci accoglie, sotto il Castello.



Roberta