domenica 7 novembre 2010

Stakanovizi



Durante la prima lezione di inglese fatta nel quartiere multietnico di Easton abbiamo conosciuto le nostre colleghe, tutte o quasi mediorientali. La prima domanda che gli abbiamo rivolto (così come facciamo con tutti) è: “Cosa fai nella vita?”. Quella che loro hanno rivolto a noi: “Siete sposati? Avete figli?”.
Sin dall’inizio la loro domanda ci è sembrata fuori luogo, una di quelle che a noi non sarebbe passata neanche lontanamente per la testa, l’abbiamo giudicata appartenente a un modo molto diverso di vivere la vita, la società, una domanda antiquata.

Partecipando a piccoli incontri conviviali prettamente inglesi (feste alcoliche, cene pomeridiane della domenica, birre al pub) ci è capitato di spiegare più volte perché abbiamo deciso di passare tre mesi in Inghilterra, di raccontare il primo mese speso invano alla ricerca di un lavoro, di presentarci attraverso le nostre attività professionali italiane e le nostre aspirazioni di carriera.
Ieri, e solo ieri - quindi dopo circa due mesi di vita da queste parti - abbiamo avuto una grande illuminazione: qui tutti hanno un lavoro ma nessuno è mai giudicato per il proprio.
Esempi. Un assistente universitario schiavo può decidere di punto in bianco che non gliene frega nulla di schiattare per la filologia germanica e cominciare a lavorare in una lavanderia o nella cucina di un ristorante cinese senza che nessuno pensi sia un pazzo fulminato perché comunque continua a parlare di filologia germanica. Un graphic designer affermato può da un giorno all’altro capire di essere affascinato dai massaggi shatzu e così intraprendere una nuova attività senza che gli amici lo additino come uno scriteriato o smettano di frequentarlo perché ha scelto di lavorare le stesse ore con uno stipendio inferiore. Un commercialista o un discografico a quarantacinque anni può essere solleticato dall’idea che in Cile la vita potrebbe soddisfarlo più che nel luogo dove ha sempre e solo fatto il commercialista o il discografico e partire senza cori d’incoraggiamento o file di teste che si scuotono a significare “ma dove te ne vai, cazzone!”.

Il mito del lavoro quindi sta tutto nella nostra testa: da noi vali se lavori sì, ma non solo. Vali se lavori soddisfacendo in tempi e stipendi le aspettative tue, ma anche di mamme, padri, nonni e zie, che stanno tutti lì a giudicare quanto sei realizzato nella vita, e lo fanno secondo parametri che sempre più finiscono per diventare anche i tuoi: stipendio fisso, consistente e sempre coerente con il percorso di studi e gli interessi. Nessun colpo di testa, radicamento al territorio direttamente proporzionale all’età e nessuna soluzione alternativa.
Perseguire i propri progetti, ma non far dipendere la propria serenità dalla loro realizzazione costante e in continua ascesa diventa un’impresa titanica. E si diventa schiavi di un’idea bidimensionale di se stessi, che non prevede deroghe e spesso spegne le aspirazioni.

Qui invece nessuno è quello che produce, il proprio lavoro o le proprie ambizioni professionali; qui uno è quello che è, quello che è stato e quello che potrebbe diventare facendo riferimento a una identità che si costruisce sulle propensioni, le passioni, i desideri, i modi di fare e si essere: su una identità soggettiva (cioè del soggetto vivente) e non oggettiva (dell’oggetto che il vivente realizza).
In Italia si è probabilmente legati a una filosofia borghese, da Mastro Don Gesualdo, che qui è già tramontata, così come da noi è tramontata quaranta o cinquanta anni fa l’idea che la realizzazione personale dipendesse dalla realizzazione familiare e, quindi, dal: “Siete spostati? Avete figli?”
Qui, a dire il vero, nessuno c’ha mai chiesto che lavoro facessimo, siamo sempre stati noi a farci avanti e presentarci così. Da oggi in poi, partecipando ai piccoli incontri conviviali prettamente inglesi, non lo chiederemo più neanche noi e andremo oltre. E in Italia?

Mauro e Roberta

4 commenti:

  1. Tutto vero. Vorrei sottolineare come questa attitudine renda, secondo me, più libere le persone. Era incredibile vedere,a Dublino, come gli italiani fossero i più paranoici rispetto alla prospettiva di lasciare il lavoro per cambiare magari paese, mentre cio' sembrava molto più naturale se fatto da un olandese o un tedesco.

    Io credo che il dramma sia che il lavoro, che in Italia e' oramai in buona parte non pagato o pagato malissimo, rischia di renderci seriamente degli schiavi.

    Se ne potrebbe parlare a lungo, ma una cosa che mi ripeto sempre e' che non bisogna mai scordare che la vita e' molto più piena di piaceri e possibilita' di quanto l'orizzonte ristretto del mito della carriera o del posto fisso vorrebbe farci credere.

    Ma quanto mi piacerebbe parlarne con voi di fronte a una bella birrozza in un pub?

    Un abbraccio
    fredo

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  2. Freduzzu, ne parleremo a Natale!
    Un abbraccio

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  3. sono un pò in imbarazzo a chiedervi una cosa
    perchè ho letto attentamente questo post, e l'ho capito, e mi è piaciuto tanto e prometto che da domani anche io la cercherò di smettere di farmi i pipponi sempre e solo sul lavoro. però ora non riesco a non farvi questa domanda, imbarazzante:
    ma perchè, che lavoro avete trovato?

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